articolo21 

L’Italia riveduta e corrotta

Postato il Friday, 14 March @ 17:58:07 CET di articolo21

di Marco Travaglio

Parlare di conflitto d’interessi, a questo punto, fa ridere. Avrebbe senso in un libero mercato nel quale esistessero vari portatori di interessi, qualora uno di costoro entrasse in politica e rischiasse di avvantaggiarsi sugli altri. Ma nel settore televisivo - salvo considerare Marco Tronchetti Provera un concorrente di Berlusconi e La7 una tv rivale delle reti Rai e Mediaset (le reti Raiset) - non esiste libero mercato proprio perché non esistono concorrenti. Secondo il primo comandamento berlusconiano: «Non avrai altro tycoon all’infuori di me». Dunque, se gli interessi sono noti (i suoi), resta ignoto il conflitto. (segue)

Fra chi e chi? Fra lui e il nulla? Dice giustamente Enzo Biagi che la posizione del Cavaliere è davvero invidiabile: «È l’unico al mondo che fa concorrenza a se stesso». Dunque vince sempre. Senza contare che, come ha detto Santoro (l’altro giornalista non a caso epurato della Rai berlusconizzata) a brutto muso a Gad Lerner in una delle ultime puntate dell’Infedele, «se Berlusconi fa un decreto che abbassa le tariffe telefoniche, Tronchetti Provera, che è il padrone della Telecom e di La7, chiude la baracca, prende Afef e se ne va alle Maldive». È più che evidente dunque che, almeno nel settore televisivo, che poi è il cuore della conquista del consenso di massa, il conflitto d’interessi non esiste. Non per mancanza di interessi. Ma per mancanza di conflitto. I veri problemi creati da questa situazione mostruosa sono altri due: il trust e l’incompatibilità a ricoprire cariche pubbliche. Nessuno può possedere così tante televisioni, nemmeno se non fa politica (nessuna legge antitrust del mondo occidentale consente una situazione come quella italiana). Se poi fa politica, non può possedere nemmeno l’uno per cento di una televisisione, come peraltro stabilisce la legge del 1957 che rende ineleggibili i titolari di concessioni pubbliche (salvo, si capisce, che se ne spoglino). Altro che conflitto di interessi. Chi governa non deve avere interessi, punto e basta. Conflitto o non conflitto.

Si dirà: ma Berlusconi possiede anche tv locali, radio, portali internet, case editrici, giornali, concessionarie pubblicitarie, banche, assicurazioni, società sportive, quote azionarie un po’ dappertutto. Lì il conflitto di interessi esiste. Verissimo. Ma tra lui e i suoi concorrenti in quegli specifici settori merceologici. Che rappresentano un’infima minoranza dei cittadini italiani. E chi non possiede nulla di tutto quel bendiddio? Se ne può legittimamente infischiare del conflitto d’interessi, visto che semplicemente di interessi non ne possiede. Il conflitto lo percepisce chi ha interessi: e cioè i titolari di altre tv locali, radio, portali internet, case editrici, giornali, concessionarie pubblicitarie, banche, assicurazioni, società sportive, quote azionarie. In pratica, i concorrenti di Berlusconi. Ecco perché insistere sull’espressione "conflitto d’interessi" non produce gli effetti sperati sull’opinione pubblica. Perché chi non ha interessi non avverte il conflitto. Difficile spiegare che anche il diritto all’informazione libera e pluralista, il diritto a una giustizia uguale per tutti, il diritto a un mercato finalmente libero nei settori bancario, assicurativo, pubblicitario e così via sono interessi collettivi altrettanto importanti come l’aria che respiriamo. Soprattutto perché, per spiegarlo, bisognerebbe disporre di mezzi di comunicazione liberi. Che non ci sono. A causa del monopolio televisivo-informativo e dell’elezione di un ineleggibile, non del conflitto d’interessi. L’unico settore nel quale si fa strada, a livello popolare, il concetto di conflitto d’interessi è quello sportivo: da quando, per pura ingordigia, Berlusconi ha piazzato il fido Adriano Galliani (vicepresidente del Milan) alla presidenza della Lega Nazionale Calcio, ogni errore arbitrale a vantaggio del Milan o a svantaggio delle squadre concorrenti fa gridare allo scandalo. E, appunto, al conflitto d’interessi. Che, essendo urlato in tutti i giornali sportivi, i programmi sportivi di radio e tv, pubbliche e private, locali e nazionali, è entrato nelle teste di milioni di teledipendenti, anche dei meno alfabetizzati. Ma è troppo poco, forse. È un po’ riduttivo, con tutto il rispetto per i tifosi del Milan, della Juve, dell’Inter, della Lazio e della Roma.

Forse, allora, sarebbe il caso di cambiargli nome, al cosiddetto "conflitto d’interessi". Chiamiamolo Pippo, Pluto, Paperino, ma chiamiamolo in un altro modo. In mancanza di meglio, si potrebbe cominciare a pronunciare, senza paura, senza chiedere scusa, una parola proibita: "regime". Che poi è il contrario della democrazia. Un regime nuovo e inedito: mediatico e postmoderno. Ma pur sempre un regime. Perché la democrazia si fonda sulla divisione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), sulla loro rigida distinzione dall’economia e da quello che, insieme alla magistratura, è il contropotere per eccellenza: l’informazione. Da noi, tutti o quasi i cinque poteri tradizionali si assommano e si cumulano nelle mani di una sola persona: Silvio Berlusconi. Che (secondo Fortune) è l’uomo politico più ricco del mondo, guida il governo, controlla militarmente il Parlamento (ormai svuotato delle sue storiche funzioni di controllo sull’esecutivo), padroneggia tutta l’informazione che conta e ricatta quella restante con la pubblicità. Resta fuori il potere giudiziario che, nonostante i continui attacchi, provocazioni e minacce, si fa scudo della Costituzione a garanzia della sua «autonomia e indipendenza da ogni altro potere». Ma ancora per poco. Appena sarà legge la riforma dell’ordinamento approntata dai consiglieri del premier, anche la magistratura scivolerà sotto il controllo - palese o surrettizio - dell’esecutivo. Il tutto, si badi bene, senza toccare formalmente la Costituzione. Ma svuotandola dall’interno, pezzo per pezzo. Il ripristino dell’immunità parlamentare, riveduta e corrotta, farà il resto, trasformando gli eletti in una casta di intoccabili con licenza di delinquere e persino - volendo - di uccidere. Tutto questo a causa dell’ultimo, pestilenziale interesse del presidente del Consiglio: quello di non farsi processare (e probabilmente di garantire qualche "amico" palermitano nella stessa direzione "garantista"). Ultimo, si fa per dire, perché è il primo e fondamentale. Ma nemmeno questo è un conflitto d’interessi, se si eccettua quello che oppone Berlusconi all’ingegner De Benedetti, parte civile nei due processi che lo riguardano (Mondadori e Sme). Anche questo, invece, è regime, è lesione della democrazia in uno dei suoi capisaldi: la legge uguale per tutti e tutti i cittadini di fronte alla legge.

L’unica reazione non consentita, perché poco seria, è lo stupore. Sono dieci anni che Berlusconi si sforza di farlo capire ai suoi presunti oppositori che lui è lì per fare i suoi interessi a scapito di quelli degli altri. Per non tenersi la roba e scansare i processi. L’aveva confidato lui stesso a Biagi e a Montanelli, fin dal 1993, prima della discesa in campo: «Se non vado in politica, mi mandano in galera». Fece subito un decreto, nel ’94, per non far arrestare suo fratello. Occupò subito la Rai, per ingrassare Mediaset (Fininvest, allora). Varò la legge Tremonti, che fruttò al suo gruppo sgravi fiscali - fra l’altro di dubbia legittimità - per 243 miliardi. Il tutto, in soli sette mesi. Poi dovette sloggiare. Nel ’96 l’Ulivo aveva la grande occasione di applicare la legge del 1957 sull’ineleggibilità. Invece l’aggirò, esattamente come aveva fatto Berlusconi nel ’94 e come avrebbe rifatto nel 2001. Lo salvò dai debiti, gli lasciò le tv (anche Rete 4, che in base a una sentenza della Corte costituzionale del ’94 avrebbe dovuto emigrare su satellite), gli approvò una ventina di leggi contro la giustizia che rallentarono i processi, compresi i suoi, mandandoli in prescrizione, lo legittimò promuovendolo da condannato-indebitato-sconfitto nientemeno che a padre costituente, gli rovesciò l’unico governo apprezzato dagli italiani (quello di Prodi, che ci aveva portati in Europa). In pratica, gli consegnò il Paese, salvo poi meravigliarsi perché nel 2001 le elezioni le rivinse lui.

Ora ci dicono che questo non è un regime perché non spara, e aspetta i carri armati nelle strade. Ma perché mai un regime mediatico, che cattura i consensi popolari senza bisogno della violenza, dovrebbe sfoderare i carri armati? Altri ci dicono che, anche se fosse un regime, non si può chiamarlo così perché altrimenti bisognerebbe imbracciare il fucile e salire in montagna a fare la resistenza. A parte il fatto che la resistenza armata si fa a un regime armato. Se questo è armato di televisioni, bisognerebbe lavorare per disarmarlo delle sue televisioni (in sei anni il centrosinistra se n’è scordato, e oggi sostanzialmente pure). In ogni caso, fra l’andare sulle montagne e l’andarci a tavola o a letto per lottizzare e dialogare e riformare (addirittura la Costituzione) insieme, ce ne corre. Si potrebbe cominciare da qualche via di mezzo: come togliere il saluto ai protagonisti del regime. E non prenderci più neppure un caffè. Anche perché pure il caffè ingrassa le tv di regime, con gli spot. Anche il caffè è Mediaset.

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da Avvenimenti, il nuovo numero

Berlusconi sordo ai richiami della Ue

Postato il Friday, 14 March @ 17:31:14 CET di articolo21

Parla Freimut Duve: il 90 per cento dei media controllato dal premier? Come in Bulgaria

di Daniela Preziosi e Berto Barbieri

In Italia è diventato famoso un anno fa, quando, nel corso di un convegno a Torino, ha raccontò di aver contestato al regime del Kazakstan la falsa privatizzazione delle tv di stato: il presidente le aveva vendute alla moglie. Ma il kazako gli aveva risposto: "Lei pensi all’Italia. Cosa pretende da noi?". Tedesco, socialdemocratico, giornalista ed editore, è il commissario per i media dell’Osce Freimut Duve ha un nemico irriducibile, si chiama conflitto d’interesse. (segue)

E il conflitto di interesse in Europa ha un nome e cognome: si chiama Silvio Berlusconi. Così ogni volta che Duve parla dell'Italia, Berlusconi si innervosisce. E di noi, Duve, parla spesso.

Maggio 2001: «In Italia la democrazia è in pericolo per il controllo dei media esercitato dal premier».

Poco dopo: «In Italia c’è il rischio che la divisione dei poteri non funzioni più».

Giugno 2002: «Chiedo al governo italiano cosa intenda col termine "attività criminose", utilizzato dal presidente del Consiglio in riferimento al lavoro dei giornalisti Biagi e Santoro, oggi emarginati». Poi contro l’ex presidente Rai, che gli aveva risposto di farsi i fatti suoi: «Neanche dal governo russo, quando chiedo conto del licenziamento di giornalisti, ricevo mai repliche della supponenza che traspare dalle dichiarazioni da Baldassarre».

Un anno fa Duve ha scritto al Giscard d’Estaing, presidente della Convenzione europea: «Non vorrei che l’Italia fosse il primo stato membro a subire le sanzioni del trattato di Nizza: cioè la perdita del diritto di voto in Commissione europea, a causa del monopolio dell'informazione del suo premier».

Oggi l’associazione Articolo 21 ha presentato un ricorso al parlamento europeo, e il rischio è che si apra una procedura di infrazione. Alla vigilia del semestre di presidenza italiana della Ue.

Commissario Duve, lei da due anni denuncia l’anomala situazione italiana e l’inefficacia della legge sul conflitto di interesse che sta per essere approvata dal parlamento italiano. Ha ricevuto risposte dal governo Berlusconi?

Assolutamente no. O meglio, il presidente Berlusconi negli atti concreti della sua amministrazione ha mostrato di essere in netto contrasto con tutte le mie argomentazioni. E dirò di più: si è dimostrato totalmente sordo a quelli che potevano essere spunti per un confronto. Il governo italiano si è fatto portatore di una tripla sfida: alle istituzioni politiche del vostro paese, al dibattito costituzionale sull’Unione Europea e ai nuovi paesi che stanno entrando. Ora, è importante chiarire una cosa. Questa triplice sfida non riguarda il conflitto d’interessi in sé, ma la riduzione delle distanze esistenti tra i paesi che cihiamiamo "fondatori" dell’Unione e i paesi che attendono di entrarvi. In queste realtà, rispetto al sistema di gestione dei media, ci troviamo totalmente al di fuori di un’idea di organizzazione libera di giornali, radio e televisioni. Basta pensare alla Bulgaria, o a altre realtà dell’Est europeo, dove il 90 per cento del potere mediatico è sotto il controllo diretto o indiretto del primo ministro. Sono governi che non intendono perdere questo potere, perché è su di esso che si fondano.

Una somiglianza fortissima con l’Italia. Non crede?

È questo il problema reale al quale mi riferivo. Guardando in direzione della futura Costituzione dell’Europa, dobbiamo pensare ad un orientamento comune dei paesi membri. Paradossalmente, l’Italia sta attraversando una fase critica interna, e questo fa gravare su di essa una grande responsabilità.

Secondo alcuni, il governo italiana viola apertamente l'articolo 21 della nostra Costituzione, e anche l'articolo 7 del trattato di Nizza europea Prodi, del presidente del Consiglio europeo Costas Simitis e quello del parlamento Pat Cox. Qual è la sua opinione?. Tanto che una richiesta di una procedura di infrazione contro l’Italia ora è sulle scrivanie del presidente della Commissione

Chi ha fatto questo ricorso ha fatto benissimo. Quello della sospensione dell'Italia dal diritto di voto è un rischio che avevamo ventilato da tempo. E perché l'Europa si muova, la spinta interna è fondamentale. Ma adesso bisogna capire quale sarà l'atteggiamento delle istituzioni europee. Mi pare che al momento né Prodi, né Simitis né Cox abbiano risposto. Bisogna aspettare. Sappiamo che il rapporto Prodi-Berlusconi ha dei precedenti. Due anni fa, quando fu eletto Berlusconi, il problema dell'Italia venne alla ribalta della Commissione, ma Prodi rimase in silenzio. Eppure lui veniva, direttamente o quasi, dall’esperienza di governo precedente a quella attuale. Ma il problema non lo ha mai voluto toccare. La sfida, ripeto, rimane quella dell’Europa. Quando sono ho ricevuto il mandato per questo mio incarico, fu proprio Prodi ad invitarmi a risolvere il problema.

Presto all'Italia toccherà il semestre di turno della presidenza del Consiglio europeo. Crede che questo potrà influire, in un senso o nell'altro, alla soluzione del caso italiano?

Posso fare due considerazioni. La prima è che fin quando l’Italia non cambierà amministrazione, durante i prossimi sei mesi tutti gli appuntamenti europei finiranno per spostare l’interesse dalla vostra situazione interna. Ma intanto il conflitto di interessi in Italia non sarà risolto. La seconda considerazione è che non c'è una migliore occasione per portare in evidenza questo problema. Mi aspetto una prova di grande responsabilità da parte del vostro paese.